Bombe made in Italy in Yemen, ecco perché Seafuture deve cambiare

 

Giorgio Pagano – Fonte: © Città Della Spezia
22 luglio 2018

I caccia F15 della Royal Saudi force da anni sfrecciano nei cieli dello Yemen e sganciano bombe a pioggia. I raid si susseguono senza sosta. Partono dalle basi a sud di Riad. In pochi minuti raggiungono l’obiettivo, lo distruggono e tornano indietro. Una meccanica mortale, che costringe intere famiglie all’esilio.
Una sigla incisa su una bomba fa di quel conflitto lontano una strage che ci riguarda da vicino: MK83, un modello prodotto da RWM Italia. Alle 3 di notte dell’8 ottobre 2016, un raid aereo condotto dalla coalizione militare guidata dai sauditi colpì il villaggio di Deir Al-Hajari, nello Yemen nord-occidentale. L’attacco uccise una famiglia di sei persone, tra cui una madre incinta e quattro bambini. Sul luogo dell’attacco furono rinvenuti dei resti di bombe e un anello di sospensione prodotti da RWM Italia, società con sede operativa a Domusnovas, nel cagliaritano, controllata dal produttore tedesco di armi Rheinmetall Defence.
E’ così che l’Italia partecipa indirettamente alla guerra tra i ribelli sciiti Houthi, graditi all’Iran, e le forze governative appoggiate dal potente vicino sunnita che ha dispiegato aerei, truppe di terra e imposto il blocco navale. Tutte le parti coinvolte nel conflitto nello Yemen hanno ripetutamente violato i diritti umani e la popolazione civile sta affrontando una crisi umanitaria di vaste proporzioni. Numerosi attacchi aerei sferrati dalla coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita sono stati giudicati dalle Nazioni Unite in violazione del diritto umanitario internazionale.
Il paradosso è che i Paesi europei esportatori di armi forniscono aiuti umanitari alla popolazione colpita da queste stesse armi: i profughi yemeniti messi in fuga dai bombardamenti con le MK83 sbarcano sulle coste siciliane.
“L’ipocrisia e` sconcertante e si protrae a causa della mancata attuazione del regime normativo europeo sul controllo delle esportazioni di armi in relazione ai diritti umani”, afferma Miriam Saage-Maaß, Vice Legal Director dell’European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), che aggiunge: “E’ di fondamentale importanza avviare un’indagine sulla responsabilità penale per queste esportazioni di armi e le relative autorizzazioni”. E’ stato fatto un esposto alla Procura e l’Italia potrebbe essere condannata per favoreggiamento di crimini di guerra. Per Francesco Vignarca, della Rete Italiana per il Disarmo, “l’esportazione di armi all’Arabia Saudita e` contraria alla Legge italiana n.185/1990, che vieta l’esportazione di armi verso Paesi in conflitto armato, e` in contrasto con le disposizioni vincolanti della Posizione Comune dell’Unione Europea che definisce norme comuni per il controllo delle esportazioni di attrezzature militare ed è contro le prescrizioni contenute nel Trattato internazionale sul Commercio delle Armi”.
Le autorizzazioni all’export dell’industria bellica le rilascia il nostro Ministero degli Esteri. Chiamato a rispondere in Parlamento, il Ministro Paolo Gentiloni disse che “l’Italia riconosce il diritto dell’Arabia Saudita a difendere la propria sicurezza”. Alcuni mesi dopo quelle parole Gentiloni volò a Gedda per incontrare il re saudita. Un incontro per promuovere la tecnologia e il brand italiano. Ancor prima era stato il Presidente del Consiglio Matteo Renzi a volare dai sauditi per stringere accordi bilaterali. Sul piano economico l’Arabia è il nostro principale partner commerciale nel Golfo e il quarto fornitore di petrolio. Di fronte agli accordi commerciali in grado di muovere miliardi di euro, ecco che i processi sommari, la pena di morte (un’esecuzione capitale ogni due giorni), l’oppressione delle minoranze, delle donne e degli omosessuali, diventano dettagli irrilevanti.

RICONVERTAMO SEAFUTURE,
PERCHE’ L’ITALIA NON VENDA PIU’ ARMI AI REGIMI DITTATORIALI O IN GUERRA

Fosse stato anche solo per la presenza dell’Arabia Saudita, non c’è dubbio che la manifestazione SeaFuture, tenutasi nelle scorse settimane nella nostra città, andasse criticata e contestata. SeaFuture si è presentato nel 2009 con gli abiti del salone per la ricerca e l’innovazione, ma nei fatti si è trasformato, almeno a partire dal 2014, in un momento per cercare contatti buoni con lo scopo di vendere le navi militari dismesse a chiunque. Compresi i Paesi che non hanno rispetto dei diritti umani e che sono in guerra.
All’evento del 2018 hanno infatti presenziato rappresentanti dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti, del Kuwait e del Qatar. Paesi che sono impegnati (o lo sono stati) militarmente, senza alcun mandato internazionale, nel conflitto in Yemen. Ma nell’elenco ci sono anche l’Egitto di al-Sisi, che con l’Italia non ha tuttora chiarito il delitto di Giulio Regeni, e altri Paesi africani e asiatici i cui standard di rispetto dei diritti umani non sono propriamente esemplari.
Ha perfettamente ragione il mio amico Giorgio Beretta, analista dell’Opal (Osservatorio permanente sulle armi leggere) e cofondatore del Comitato “Riconvertiamo SeaFuture”:
“Non intendo mettere in discussione la legittimità della Marina Militare di fornire a Paesi esteri sistemi navali che, dopo il necessario refitting e adattamenti vari, possano essere da loro utilizzati per esigenze di difesa. E nemmeno intendo criticare l’intenzione di approfittare della dismissione delle unità navali per provare a rivenderle. Quello verso cui punto il dito è innanzitutto la voglia di far cassa ad ogni costo, sottacendo sulle persistenti violazioni delle convenzioni e delle norme internazionali in materia di diritto umanitario e di diritti umani da parte dei Paesi a cui vendiamo armamenti, più o meno nuovi”…leggi tutto l’articolo