Più salute e meno armi: la riconversione industriale non è una missione impossibile

Andrea Maggiolo – Fonte: © Today

Torna d’attualità la richiesta di ridurre le spese militari ed utilizzare i fondi anche per rafforzare la sanità. Puntare alla riconversione delle industrie a produzione bellica verso il settore civile è possibile. Beretta (Opal) a Today: “Si può fare, ma serve la volontà politica”

…Paghiamo in queste settimane complicate il prezzo anche del continuo e recente indebolimento del sistema sanitario nazionale. Le cause dei tagli alla sanità sono molteplici. Non si può non notare come tale trend sia andato di pari passo con una ininterrotta crescita di fondi e impegno a favore delle spese militari e dell’industria degli armamenti: l’appello pubblico che arriva da Rete Italiana per il Disarmo e Rete della Pace è molto circostanziato, basato sui numeri. Quanti posti letto si potrebbero creare con un giorno, una settimana, un mese in meno di spese militari in Italia?

Beretta (Opal) a Today: “La riconversione è un processo che non si fa dall’oggi al domani”

In Italia ci sono 231 fabbriche di “armi comuni” e ben 334 aziende sono annoverate nel registro delle imprese a produzione militare. Ce n’è invece solo una in tutta Italia che produce respiratori polmonari, per l’acquisto dei quali dipendiamo dall’estero.

In Lombardia l’Agenzia Regionale per la riconversione dell’industria bellica era stata istituita nel 1994, ma venne di fatto “affossata” nel 2006. Abbiamo chiesto a Giorgio Beretta, ricercatore di Opal, se abbia senso o meno parlare di riconversione dell’industria bellica nel pieno dell’emergenza e quali sono gli scenari possibili a medio termine.

“La riconversione è un processo che non si fa dall’oggi al domani – dice Beretta raggiunto da Today –  Significa infatti non solo cambiare il tipo di produzione o adattare temporaneamente qualche macchinario, ma – appunto – convertire l’intera linea produttiva, utilizzando il più possibile tutti i macchinari già presenti, alla produzione civile. Ciò implica, da un lato, definire con precisione un nuovo prodotto o serie di prodotti di utilità sociale e non di tipo militare, dall’altra uno studio tecnico e ingegneristico per adattare i macchinari già presenti in azienda”

“Si tratta, perciò, di un processo che innanzitutto richiede la volontà politica di cambiare linea di produzione (e non solo di diversificarla, come potrebbe essere ad esempio per produrre elicotteri sia civili che militari) e quindi della definizione della modalità tecniche per operare questa trasformazione – continua Beretta – . Non è, però, un processo difficile: le competenze di tecnici, ingegneri e nelle università ci sono; ciò che manca, invece, è la volontà del mondo politico per innescare e accompagnare questo processo. Da sempre, infatti, gran parte delle forze politiche guardano con sospetto i processi di riconversione perché, mostrando che “si può fare”, ritengono che rappresentino una minaccia alla produzione militare che ovviamente considerano prioritaria e strategica”.

“Non è un caso, ad esempio, che la stessa Valsella che produceva le famigerate mine antipersona, nonostante la disponibilità da parte della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Brescia, non sia stata di fatto “riconvertita”,  ma si decise di cambiarne produzione: la riconversione dell’azienda era vista come una minaccia da gran parte del mondo imprenditoriale e politico bresciano e nazionale”. Valsella, storica azienda lombarda produttrice di mine antiuomo, anni fa passò a produrre componenti elettronici, dopo un lungo lavoro di sensibilizzazione partito da alcune coraggiose operaie.

“Detto questo, ribadisco che è proprio adesso, nel mezzo dell’emergenza, che andrebbero messi in campo progetti di riconversione almeno temporanea – dice Beretta a Todayperché non cominciano a farlo i colossi statali della produzione militare, come Leonardo e Fincantieri, che hanno macchinari, competenze tecniche e risorse economiche per produrre apparecchiature mediche, kit sanitari e quanto serve ai nostri ospedali?”.