In Iraq con le vittime delle mine anti-uomo «Le armi italiane qui ancora uccidono»

Amalia De Simone e Marta Serafini – Fonte: © Corriere della Sera
23 luglio 2019
Durante la guerra tra Bagdad e Teheran sono stati piazzati 10 milioni di ordigni, molti dei quali venduti dal nostro Paese. Ma ora, a distanza di 30 anni,
l’opera di bonifica sul confine non è stata terminata e si continua a morire ( guarda il video )…
Dall’Iraq e ritorno. A Castenedolo, in provincia di Brescia, Franca Faita, 70 anni, apre la porta della sua casa. Sorride. La signora Franca, come la chiamano tutti da queste parti, conosce la Valmara meglio di chiunque altro. «Ho lavorato per più di 30 anni come operaia prima alla Meccanotecnica poi diventata Valsella. Lì producevamo mine, ne fabbricavamo tantissime, si è parlato di 30 milioni». Uno dei clienti principali della Valsella è proprio l’Iraq. Nel 1983 gli affari vanno talmente a gonfie vele da far balzare il fatturato della società oltre la soglia dei 100 miliardi di lire.
E il “merito” è soprattutto della guerra tra Bagdad e Teheran. Nella relazione di bilancio del 1981 si legge come l’azienda stia fiorendo grazie all’«acquisizione di importanti commesse nel settore militare e in particolare con il ministero della Difesa dell’Iraq» e al conseguente «potenziamento della struttura produttiva dell’azienda». Il grande balzo non si fa attendere. Un militare iracheno parlando con una televisione italiana afferma che nell’opposizione all’offensiva della fanteria di Khomeini «l’Iraq deve molto ad una piccola azienda bresciana».
Ma delle armi italiane vendute nel mondo per uccidere civili ancora si parla. «La vicenda della Valsella ha avuto il merito di portare alla legge 185 del 1990 che tra le altre cose obbliga il governo a presentare una relazione annuale al Parlamento sull’export di armi e condiziona l’autorizzazione delle vendite ad una valutazione sulla possibile violazione dei diritti umani e sui danni ai civili», sintetizza Carlo Tombola, Coordinatore scientifico dell’Opal. Passi in avanti che però non sono considerati dagli esperti sufficienti.
Alle prime luci del mattino sulla strada tra Sulaymaniyah e Erbil i camion si spostano lenti. A ridosso del checkpoint verso Mosul le macerie delle case distrutte dall’Isis si stagliano all’orizzonte. Un medico scuote la testa. «Ora, qui abbiamo una nuova guerra da combattere e sono gli ordigni inesplosi piazzati da Daesh che ancora uccidono anche se i combattimenti sono finiti». Proprio come le mine della guerra Iran-Iraq… leggi tutto l’articolo