In Lombardia c’è chi non vuole più le bombe nucleari

Le piccole città italiane riservano sempre qualche sorpresa. Piacevole o spiacevole a seconda dei casi e, molto spesso, addirittura al contrario di quel che sembrerebbe osservando una carta geografica o un depliant turistico. Su Google map, per esempio, Ghedi – 18mila abitanti a 18 chilometri di distanza da Brescia – sembra un’oasi di verde nel disastro urbanistico industriale della Lombardia. Collebeato al contrario, che di abitanti ne ha solo quattromila, a tutta prima sembra solo un pezzo della cintura urbana del capoluogo che sale in val Trompia, un’area del bresciano dove gli insediamenti arrivano a ospitare anche 1.200 persone per chilometro quadrato.

A leggere di Ghedi si scopre che c’è una chiesa del diciassettesimo secolo, sorta su un’antica pieve, con un campanile del quattrocento, un palazzo comunale di origine medievale, logge e resti di un monastero francescano. Al contrario a Collebeato non c’è molto altro se non alcuni palazzi nobiliari di antichi notabili come i Martinengo. Bisogna andarci allora, a Ghedi e a Collebeato, per alzare il velo di una realtà che, nel primo caso, ci si guarda bene dal pubblicizzare, e nel secondo è più ricca di quanto ci si possa aspettare.

In base a un accordo di “condivisione nucleare” l’Italia ospita da quasi settant’anni un certo numero di bombe atomiche americane. Le B61, così sono chiamate le testate, oggi dovrebbero essere una cinquantina. Il condizionale è d’obbligo perché i dati non sono ufficiali, ma coperti da segreto militare: una trentina sarebbero stoccate nella base statunitense di Aviano in Friuli-Venezia Giulia e altre venti nella base italiana di Ghedi, dove i Diavoli rossi convivono con lo squadrone di soldati americani che le ha in custodia.

Le proteste e l’indifferenza
Le atomiche del sito bresciano possono essere impiegate dai cacciabombardieri Tornado del 6º stormo almeno fino a che non saranno sostituiti dagli F-35, due dei quali sono negli hangar dell’aeroporto. I campi intorno alla base sono un’enorme zona di rispetto, costellata di cartelli che avvertono del rischio di aerei “a bassa quota” e, all’ingresso del centro abitato, proprio sotto la scritta Ghedi, si legge che si tratta di un comune “videosorvegliato”. Siete avvisati. E se provate a fare una telefonata, sappiate che il cellulare prende con difficoltà.

Ufficialmente però quelle bombe non esistono. “Il motivo di questo segreto”, dice Carlo Tombola dell’Osservatorio sulle armi leggere (Opal) di Brescia, “sta nell’imbarazzo dei nostri governi che non hanno alcuna autonomia in questa materia, anche se alcuni stati membri della Nato si sono rifiutati di ospitare testate nucleari. Si tace per non perdere credibilità e anche per non allarmare i cittadini”.

“La storia delle atomiche girava nel bresciano sin dagli anni ottanta. Tutti però negavano”, dice Adriano Moratto del Movimento nonviolento, l’associazione fondata da Aldo Capitini, il pacifista che ha incarnato la non violenza dando vita alla marcia Perugia-Assisi.

Moratto è, insieme a don Fabio Corazzina, la memoria storica di un movimento dal basso che, con costanza e determinazione, ha sempre cercato di far venire a galla la verità sulle bombe. Contestando una scelta che feriva ancora di più un territorio già martoriato da fumi industriali e da un numero altissimo di discariche, come quelle a Montichiari, che ha 23mila abitanti e 21 discariche.

Il tutto in un’area famosa per la produzione di armi: dalle mine antiuomo della Valsella (Castenedolo), alle armi leggere della Beretta (Brescia) fino alla famosa Rwm, l’azienda che fabbrica le bombe usate nello Yemen in Sardegna, e che come sede italiana ha scelto proprio Ghedi.

“Nel caso italiano”, dice Francesco Vignarca, tra gli autori del rapporto, “le spese riguardano i quaranta Tornado della base di Ghedi. Solo nel 2018 sono state più di 88 milioni, mentre da qui al 2025, anno in cui gli aerei saranno sostituiti dagli F-35, supereranno il miliardo di euro”. Ma oltre a queste, ci sono anche le spese per l’aggiornamento della cosiddetta capacità aerea non convenzionale, che ammontano a 254,6 milioni (16,5 milioni nel 2018).

E i piloti? Le spese di addestramento dei gruppi di volo dedicati al “nuclear strike” – i Diavoli rossi del 6° stormo di Ghedi – sono difficili da quantificare. Dice Vignarca che “in genere l’addestramento di un pilota militare ha un costo che si aggira intorno al milione di euro”.

Infine le basi: spese per strutture, equipaggiamenti, protezione per il personale statunitense… “Secondo le nostre stime, la spesa direttamente riconducibile alla presenza di testate nucleari statunitensi sul suolo italiano, a Ghedi e ad Aviano, ha un costo minimo di almeno 20 milioni all’anno, ma complessivamente potrebbe arrivare fino a cento milioni”, conclude Vignarca. Chissà con quei soldi cosa ci farebbero a Collebeato…leggi tutto l’articolo